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INTRECCI MEDITERRANEI; UNA CARRELLATA

INTRECCI MEDITERRANEI; UNA CARRELLATA

INTRECCI MEDITERRANEI; UNA CARRELLATA


Intrecci mediterranei
è la sezione fulcro del nostro festival. Nei 24 film selezionati, dal Medio Oriente alla Penisola Iberica, dai Balcani al Maghreb fino alla Francia, emerge quel lavoro di mappatura dei cinema dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, con le relative tendenze dominanti e gli sguardi sulle varie realtà, che è il motivo per cui Passaggi d’Autore è nato.

Da molte di queste opere traspare l’idea che il Mare sia “Nostrum” fino ad un certo punto. Non è un caso quindi che molti dei lavori migliori vengano dalle zone calde del Medio Oriente e del Maghreb, ed è inevitabile che molti film raccontino questioni legate alle migrazioni e vari tipi di muri; non solo quello di cemento e reale che è, per esempio, decisivo nel palestinese The present di Farah Nabulsi, ma anche muri culturali e mentali i cui mattoni sono diffidenze, chiusure, odii e pregiudizi.

Oppure, muri che pian piano iniziano a sgretolarsi dopo incontri che smuovono consapevolezze e sensibilità. È il caso questo dell’israeliano White Eye di Tomer Shushan, esempio di virtuosismo non fine a se stesso e rielaborazione che attualizza il simbolo di Desichiana memoria della bicicletta. L’unico piano sequenza, la cinepresa mobile scandagliatrice e la profondità di campo creano infatti tensione e soprattutto fanno emergere le questioni più profonde della vicenda, scaraventando il “privato” nel politico e raccontando il drammatico climax interiore del protagonista che passa dall’autoreferenzialità ai primi echi di una coscienza più collettiva.

L’intimità e la quotidianità più emotiva da cui emergono le questioni legate all’emigrazione sono il succo del marocchino Le depart di Xavier Sirven, un film dolce nella sua amarezza che racconta lo sradicamento di un bambino dalla sua realtà. C’è uno sguardo sull’infanzia che può ricordare la delicatezza di Francois Truffaut, ed emerge tutta la mestizia delle fasi della vita che finiscono non per nostra scelta. I bambini sono protagonisti di altre opere, e non si limitano a guardarci; nel palestinese The present di Farah Nabulsi e nell’egiziano Henet ward di Morad Mostafa, le loro improvvise azioni diventano decisive nel superare l’impasse dovuto ai muri, fisici o culturali, di cemento o sedimentati nella diffidenza tra etnie diverse. In particolare nel cortometraggio egiziano è l’intervento finale della figlia della protagonista a dare all’opera un senso beffardo e irriverente, arricchendola.

Molto giovani sono anche i due fratelli protagonisti di Maradona’s legs del palestinese Firas Khoury, una dolceamara “commedia di formazione” ambientata nel corso delle notti magiche di Italia 90. Sullo sfondo dell’avventurosa ricerca della figurina delle gambe del Pibe De Oro riecheggiano gli echi della prima Intifada e delle rivendicazioni del popolo palestinese. Il film rende, inoltre, con efficacia il valore simbolico, identitario e culturale del calcio – del resto, attraverso il giocatore che è forse la sua icona per eccellenza -, e come il suo impatto possa andare ben oltre i limiti del campo da gioco e dei 90 minuti più recupero.

Semplifichiamo e schematizziamo un attimo; i film citati in qualche modo si rifanno, ognuno con la proprie particolarità e la propria personalità, ad un abbastanza chiaro naturalismo di fondo. Il marocchino Sukar di Ilias El Faris è invece quasi surreale e circense, e mostra unghie affilate al cospetto della chiusura mentale di una società. È la storia d’amore tra due adolescenti che si svolge, tra incontri e scontri paradossali e talvolta slapstick, su una spiaggia dalle atmosfere e dalla fauna umana simili a quelle che riempivano il tratto di costa ne Le vacanze di Monsieur Hulot ( 1953 ) di Jacques Tatì.

Trascende il naturalismo, ma non il reale, anche il francese Olla di Ariane Labed, durissima e sarcastica, ma non cinica, cronaca di una ribellione e di una fuga di una ragazza alla pari da un microcosmo famigliare asettico e nella sostanza becero e cattivo, perfettamente reso da uno sguardo distaccato ma non algido e in grado di rendere “significanti” le geometrie, le luci, i colori e gli spazi dell’inquadratura, tutti segni di un inferno sociale e culturale. Forse, è questo il film migliore della sezione.

Dai ghigni acri dell’ottimo film della Labed, alle emozioni più calorose dell’altrettanto riuscito À la mer poussière della francese Héloïse Ferlay, un film d’animazione in stop motion sulla rielaborazione di una perdita e sul ricomponimento di una famiglia con protagonisti pupazzetti di lana. Struggente e tenero, è un validissimo – si veda l’utilizzo della materialità della lana nel trasmettere stati d’animo ed emozioni e nel restituire la dolorosa concretezza delle lacrime, il caos degli attimi di un incidente o la bellezza del cielo sul mare – esempio di quella corrente dell’animazione francofona “emozionale”, evocativa e sperimentale.

Edoardo Peretti

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