Mon amour, mon ami di Adriano Valerio è ambientato nel paese di San Francesco, Gubbio. Due individui dal passato all’apparenza particolarmente incompatibile si trovano a convivere. Possiedono pure un gatto che fa la sua sporadica apparizione.
Daniela è un’ex alcolizzata e parla del suo problema con una scioltezza che ha del disarmante. Il suo non è un vantarsi, ma un’ammissione di colpe. Lo si legge nel tono della sua voce quando afferma che in passato beveva due bottiglie di grappa al giorno. Ha il classico tono strascicato di chi, con l’alcolismo, ha lasciato alle spalle parte della propria coscienza.
Di Fouad invece sappiamo che è marocchino, precisamente di Casablanca, e che è un migrante. Nonostante il suo aspetto alquanto insolito riesce a intenerire al primo sguardo. Già, perché il viso, il cranio e le mani di Fouad sembrano appartenere ad uno strano spettacolo circense.
Daniela e Fouad sono una coppia di reietti provenienti da mondi diversi ma in qualche modo simili. Lui ha attraversato il Mediterraneo per sbarcare in un paese che non gli consente di soggiornare senza permesso; di conseguenza l’unica soluzione è sposare Daniela. Lei invece ha un passato di abusi alcolici ed essendo rimasta sola per tanto tempo non può che trarre giovamento dalla presenza di Fouad. Sembra che possa e debba andare tutto bene, ma i sentimenti e le interiorità mettono lo zampino.
Il ritratto che Adriano Valerio dipinge nel suo cortometraggio è spietatamente crudo. Le due anime perse protagoniste si possono vedere tutti i giorni nei bar di periferia e sul ciglio delle strade, ignorate o addirittura schernite. Mon amour, mon amì è però contemporaneamente stemperato da una dolcezza di fondo che costituisce l’atmosfera principale del film, facendola da padrona.
È un cortometraggio dal taglio documentaristico portato avanti con la fluidità di un’opera di finzione e che riesce in entrambi gli intenti: documentare e narrare. Adriano Valerio dunque, già affermato regista di cortometraggi e di un lungometraggio (Banat il viaggio), riesce a raccontare una “brutta storia”e lo fa decisamente bene.
L’ultima inquadratura è quasi esasperata nella sua lunghezza, mostrando come la coppia nella vita abbia ottenuto poco e nulla. Daniela fissa la stufa mentre Fouad fuma, l’albero di natale sbrilluccica e il ronzio delle lucette fa da sottofondo alla loro condizione immutata.
Alessandro Caredda
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