Recensioni

OSLO di Shady Srour

OSLO di Shady Srour

Oslo (Shady Srour, Israele, 2019)

 

Un respiro malato. Il torace che si apre e si chiude lento, in un rantolo sibilante che accompagnerà il protagonista e lo spettatore dalla prima sequenza all’ultimo fotogramma, simbolo e testimonianza di una continua angoscia vissuta come cosa normale, parte integrante di una quotidianità gravosa e trascinata.

Ziad è un padre di famiglia palestinese, vive insieme alla moglie e alle sue tre figlie al di là del muro, quel muro maledetto che ogni giorno all’alba deve cercare di oltrepassare, inventandosi un modo per portare il pane sulla tavola. Quel muro oltre il quale è possibile trovare una possibilità in più di sopravvivere, per motivi più grandi di lui.

Sotto il sole appena sorto, la camminata bronchitica di Ziad per la vallata palestinese, rivela da subito un sapiente uso della fotografia da parte del regista Shady Srour, che si confermerà per tutto il cortometraggio.

Nel freddo dell’alba, Ziad è inseguito per lunga strada dalla sua bambina più piccola, perché non dimentichi il suo permesso di poter lavorare dall’altra parte. L’uomo si toglie la giacca pesante e la mette sulle spalle della bambina, ché fa freddo. Un emergenza più affettiva che termica, che per un momento fa dimenticare quel respiro vetroso ad accompagnare ogni passo.

Il calore familiare di un gesto semplice e intimo sono immediatamente sovrastati da un altro cardine della quotidianità di Ziad, di potenza uguale e contraria: il checkpoint, l’unico ingresso concesso a un palestinese per entrare in terra israeliana.

Un freddo e altissimo muro di cemento ai piedi del quale centinaia di “Ziad” ogni giorno camminano incolonnati dentro una rete metallica sovrastata da un filo spinato, in un percorso obbligato come vacche al macello. Il carrello oltre la rete scelto dal regista mostra tutta la profondità colorata e scomposta di un umanità dolente che scorre quotidianamente, come fosse la cosa più normale del mondo. Emblematica la scena forse più umana e paradossale di tutto il corto: in un non-luogo come quello c’è spazio anche per una visita medica. Un amico dottore riconosce il protagonista, sente il suo respiro sibilante e dopo avergli auscultato i polmoni in piedi, avanzando insieme a tutti gli altri, raccomanda di farsi vedere in ospedale. Non lo dice, ma lascia intendere qualcosa di grave.

Tu non puoi entrare” dice la ragazza allo sportello, sospettosa come alla vista di un criminale

Perchè?” risponde Ziad in ebraico, la lingua al di là del muro

Vattene” ordina il soldato armato dietro di lei.

Pochi secondi, sufficienti per far sentire allo spettatore tutto lo scoramento di un padre palestinese scacciato come un animale senza uno straccio di ragione.

Ziad è solo, non parla, fuma incurante del suo respiro graffiato, niente in confronto all’angoscia di dover tornare a casa senza qualcosa da mangiare. E’ in questo contesto emotivo che il regista sceglie di inserire l’immagine forse più bella e poetica di tutto il cortometraggio: Ziad seduto ai piedi di un albero, si trova faccia a faccia con un bellissimo esemplare di pastore tedesco. Un gioco di piani e contropiani segnano il muto dialogo fra i due; ha una medaglietta: “Oketz”, le unità cinofile israeliane addestrate a riconoscere i palestinesi. E in questo punto il protagonista pronuncia quella che può essere considerata la frase chiave del lavoro di Srour: “Come fa il naso di un cane a riconoscere un israeliano da un palestinese?”

Il cane guaisce affettuoso, lo segue a ogni passo mentre l’uomo cerca di scacciarlo in ogni modo, urlando in arabo, allontanandosi, ma è tutto inutile. Il suo nuovo amico non ha nessuna intenzione di lasciarlo, aumentando la sua disperazione

Ziad fuma ancora, e di fronte al vuoto della vallata prende la decisione più drammatica possibile, per liberarsi del cane e non tornare a casa a mani vuote.

Una decisione che colpisce lo spettatore con la violenza di una grossa pietra, annullando di colpo una delle poche note emotivamente positive di tutto il corto.

L’ultima sequenza ritrae il pranzo di Ziad con la sua famiglia, un’immagine domestica e tranquillizzante, lacerata e corrotta da un particolare: sul piatto c’è la carne che il papà aveva promesso alla bambina.

Oslo” è un cortometraggio potente, che prende il nome dagli storici accordi siglati nel 1993 nella capitale norvegese. Accordi che per tutto il mondo avrebbero dovuto segnare la fine del conflitto arabo-israeliano in una stretta di mano fra Rabin e Arafat sotto l’abbraccio di Bill Clinton. Grandi speranze miseramente fallite, il conflitto continua da decenni a insanguinare il confine tra Palestina e Israele.

Il lavoro di Shady Srour racconta il fallimento proiettandolo nella vicenda umana di una sola persona, un padre di famiglia come tanti altri che lotta per la vita della sua famiglia. L’umanità ritagliata nell’orrore quotidiano assurto a normalità, la speranza mortificata dalla violenza di un muro o di una pietra; il linguaggio del regista israeliano è fatto di chiaroscuri mai scontati, rendendo volutamente difficile la distinzione fra il bene e il male e puntando sull’emotività profonda pur scegliendo una narrazione semplice.

Oslo è il lavoro di un regista israeliano che ha la sensibilità di raccontare la dimensione disumana di un padre palestinese, e che lascia lo spettatore in bilico e senza tregua. Proprio come la terra e le persone che racconta.

 

 

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