Lentamente, inspira ed espira. Incisiva e atipica la sequenza iniziale di Majkino Zlato, quattro inquadrature incentrate sul particolare delle labbra di alcuni ragazzi mentre fumano una sigaretta. Il successivo campo medio svela il gruppo di amici di cui fa parte il protagonista, un diciassettenne orfano che vive con sua nonna. Sotto la regia di Irfan Avdić, il film – vincitore del Best Student Film al Sarajevo Film Festival nel 2018 – si configura come una storia ordinaria il cui punto di forza è costituito dalla rilevanza
posta su alcuni dettagli.
Davanti all’opportunità di prendere parte a una gita scolastica il ragazzo, oppresso da una condizione di ristrettezza economica, decide di fronteggiarla con qualunque mezzo, destreggiandosi tra spaccio di droga e criminalità, ai suoi occhi l’unica strada possibile in vista di un riscatto. Le prime inquadrature svelano senza filtri o indugi il filo conduttore dell’azione: se, in modo immediato, la prima causa di diversità tra Alem e i suoi coetanei è costituita dalla mancanza di un dente, sarà poi la frustrazione derivata da una difficoltosa situazione economica a renderlo incapace di identificarsi nel contesto sociale in cui agisce. Il suo costante senso di irrequietezza è enfatizzato da una regia dinamica abile nel far vedere il personaggio secondo diversi punti di vista – frontale, dal basso, dall’alto –, in particolar modo nella sequenza in cui un montaggio
incalzante, in un’alternanza continua tra campi lunghi, campi medi e primi piani, rivela il ragazzo intento nel compiere una serie di telefonate.
Irfan Avdić, servendosi largamente della macchina a mano, lo pedina e gli sta addosso senza dargli tregua, mettendone a nudo il senso di disagio e nervosismo. L’abilità del regista sta soprattutto nel riuscire a farci guardare il ragazzo con compassione piuttosto che con giudizio. Se è vero che si tratta solo di un adolescente restio ad accettare la propria condizione, è opportuno considerare che “il fine non giustifica i mezzi.” Il protagonista ha un atteggiamento di rifiuto verso qualunque tipo di aiuto offertogli, morale quanto materiale, ragione che crea un reciproco amore-odio con la nonna, rapporto contrastante che è riflesso anche dai dettagli entro cui l’azione si svolge. Ad esempio, quando lei si presenta nella sua scuola, i due personaggi sono simmetricamente disposti ai lati di una ringhiera. Lo stesso meccanismo viene adoperato nel momento in cui Alem, rientrato a casa, la trova addormentata sul divano e un elemento architettonico spacca lo schermo in due perfette metà. Inoltre, uno studio minuzioso della composizione rivela degli interni in penombra resi visibili da lampade – nemmeno i volti stessi dei personaggi sono mai completamente esposti alla luce – anzi, man mano che la vicenda prosegue, l’illuminazione è sempre più rarefatta tanto che, avviandosi verso la fine, alcune scene sono girate nella quasi totale oscurità.
Tutte simbologie che si configurano come metafora rispettivamente dell’inconciliabilità di due visioni del mondo diametralmente opposte e della sensazione di non-ritorno che aleggia nell’aria. La tensione attraversa tutta la pellicola fino a esplodere completamente nell’istante in
cui i personaggi danno sfogo alla propria sofferenza. Dopo la tempesta, finalmente la quiete: il buio cede il passo alla luce e gli spazi claustrofobici – una scena emblematica si svolge all’interno della macchina in cui la camera è più che mai ossessiva sui volti degli attori – lasciano spazio alla natura, al rumore del mare e al fruscio degli alberi e del vento. Majkino Zlato mette in mostra una realtà complicata per la Bosnia e il regista, anziché camuffare una problematica tanto viva e disturbante al giorno d’oggi, la sbatte in faccia allo spettatore in modo onesto. Le parole “you shouldn’t be ashamed. This country should be ashamed for letting something like this happen” riecheggiano nella coscienza del ragazzo così come nella nostra perché, in fondo, quella posta sullo schermo non è altro che una storia universale. Circolarmente, il film torna a chiudersi su quella nuvola di fumo con cui si era aperto rivelando come tutte le mancanze siano state colmate ma non senza conseguenze. Con un’ultima immagine, così apparentemente pacata quanto volutamente ambigua, il cortometraggio si chiude – lasciando un senso di amarezza e perplessità – sulle note di una colonna sonora che fa presagire tutt’altro che qualcosa di buono.
Eleonora Alessandra Spiga
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