ZAPATOS DE TACON CUBANO, Julio Mas Alcaraz, Spagna, 2018, 17′
La seconda serata di Passaggi d’Autore: Intrecci Mediterranei – Festival del Cortometraggio Mediterraneo è stata aperta da una selezione di short films provenienti dalla Spagna, dalla Turchia, dalla Grecia, dall’Egitto e dall’Italia.
Il primo cortometraggio non è stato proprio esplosivo. Zapatos de tacon cubano di Julio Mas Alcaraz (Spagna, 2018, 17′) non è infatti riuscito ad acchiappare il pubblico. Un corto ancora troppo acerbo a causa di una recitazione non spontanea, di attori probabilmente neofiti o alle primissime armi.
Paco e Jose sono due adolescenti che vivono nella periferia di Madrid, dove la violenza e l’omofobia sono all’ordine del giorno. Li accomuna una passione: il flamenco. Per evitare di essere giudicati dal proprio contesto sociale cercano di nascondere la loro relazione, vivendo così una doppia vita.
Le tematiche principali sono l’omosessualità e la libertà di esprimere se stessi. Tuttavia vengono affrontate in maniera accademica e banale, molto didascalica e decisamente poco verosimile. Il film banalizza la complessità di un argomento così delicato e complesso che anche 120 minuti di film spesso non riescono a rendere al meglio: quindi una scelta ardua da condensare in 17 minuti. Così, Il tutto si riduce a una scarsa volontà di osare.
La narrazione non è fluida: le situazioni sono isolate e il racconto filmico non è omogeneo. Sembra di essere sbalzati da un contesto all’altro senza una vera cognizione di causa-effetto. Il risultato è una storia quasi fasulla, e quindi, inevitabilmente, ciò che succede non è credibile.
Spunto interessante, ma non originale, è il tentativo di sfruttare il ballo come metafora di libertà, ma senza alla base una vera e propria motivazione forte o messaggio chiaro. È tutto troppo veloce e confuso.
In conclusione, a malincuore, Zapatos de tacon cubano è un cortometraggio troppo ambizioso per le sue possibilità recitative e di scrittura, sotto la guida, inoltre, di una regia piuttosto anonima senza lode nè infamia.
DENISE MARIA PAULIS
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